È un momento storico, il nostro, in cui le parole che usiamo hanno ripreso importanza. In cui facciamo più attenzione alle parole che usiamo, proprio perché possono avere delle conseguenze su chi ci circonda. Ci rifletto, partendo dalla parola “dipendente”, e dalle osservazioni lette in alcuni libri.
LE NOSTRE PAROLE
Nel suo contributo al volume Le parole sono finestre (oppure muri) di Marshall B. Rosenberg, incentrato sulla cosiddetta comunicazione non violenta, Andrea Canevaro, Professore all’Università di Bologna, scrive:
“Marshall B. Rosenberg attribuisce una grande importanza alle parole. Con le parole neghiamo le nostre responsabilità attribuendo i nostri atti a forze impersonali, alla nostra condizione di salute, alle autorità , alle pressioni sociali, alle pulsioni incontrollabili… Con le parole attribuiamo ad altri un modo d’essere assoluto, e non ciò che è relativo a un nostro giudizio in certe circostanze”.
In questo senso, quando scegliamo una parola, ne abbiamo totale responsabilità: siamo noi autori, o meglio, co-autori, dello scambio comunicativo che avviene assieme a un’altra persona. Siamo noi a dirigere la comunicazione, assieme a chi abbiamo davanti, a seconda delle parole, delle espressioni che scegliamo di volta in volta.
Le parole che usiamo fanno parte vocabolario condiviso con chi usa la nostra stessa lingua. Fanno parte del linguaggio comune, di tutti i giorni, che utilizziamo senza porci domande, così come scegliamo un vestito la mattina dall’armadio, lo indossiamo e via. Le parole così come sono state codificate per nominare oggetti, situazioni, eventi, e tutto ciò che ci circonda, non ci creano sorpresa. Ne siamo abituati.
UNA NOSTRA PAROLA PUÒ FARE LA DIFFERENZA
Poi capita di leggere una riflessione su un libro, ed è come se ti cascasse in testa una tegola: BOING! Ti si aprono gli occhi, d’un tratto, e inizi a farti delle domande sulle parole che usi senza farci caso. E una domanda tira l’altra e si apre un nuovo mondo davanti a te, un mondo in cui le parole non sono neutre, ma hanno potere, il potere di (e qui ci aggiungi un po’ di tutto e di più).
Il libro che mi ha lanciato questa tegola in testa è della consulente per le risorse umane Chiara Bisconti, Smart Agili Felici. Il nuovo modo di lavorare che libera la vita (Garzanti 2021). La parola-tegola è “dipendente”. “Se ci rivolgiamo a una persona chiamandola “dipendente”, vuol dire che è così che la vediamo, un essere che dipende da noi, dalle nostre decisioni”, scrive Bisconti nel suo libro.
LA PAROLA DIPENDENTE
La Treccani online spiega che “dipendente”, in quanto aggettivo, vuol dire “Che dipende, che è ad altri soggetto o subordinato”, e poi fa l’esempio di “lavoratori dipendenti”, “lavoro dipendente (non autonomo)”. Interessante, dunque, che pure nella Treccani il primo significato sia riferito al mondo del lavoro.
Nel suo libro, Chiara Bisconti, che di lavoro è esperta e si occupa quotidianamente, riflette sul significato di usare la parola “dipendente” come se nulla fosse: “I manager che definiscono così le persone che lavorano con loro le stanno trasformando in oggetti e finiscono per vederle come persone incapaci di decidere in autonomia, rendendo difficile il processo di delega”. In un certo qual senso, è come se considerassimo un adulto “che dipende da noi” ancora un bambino, incapace di autonomia, responsabilità, presa di decisioni. Poi magari nella realtà dei fatti non è esattamente così, ma è insito nell’uso in sé della parola “dipendente”.
Bisconti prosegue nelle sue riflessioni, con un riferimento all’uso di “dipendente” oltre l’ambito lavorativo: “Al di fuori del contesto aziendale una persona dipendente è una persona che ha perso parte della sua autonomia, non ha raggiunto la piena responsabilità, vive in una condizione di debolezza. Nella vita privata proviamo una sensazione di fastidio a essere “dipendenti” da qualcosa, siamo al contrario orgogliosi della nostra indipendenza, magari conquistata a fatica. Ma allora perché in azienda non ne siamo disturbati?” Quante volte abbiamo sentito parlare di “dipendenza” all’interno di un rapporto di coppia? Co-dipendenza, anche. Un tipo di relazione che la psicologia considera disfunzionale – non sana. Allora, come la mettiamo con la dipendenza dentro l’azienda?
UNA RINNOVATA SENSIBILITÀ VERSO LE PAROLE
Le parole rispecchiano il mondo particolare di cui facciamo parte. Se uso la parola “dipendente”, vuol dire che il mio mondo di riferimento si basa sulla gerarchia – e in Italia è così, che piaccia o meno. Come osserva la Digital Content Strategist Valentina Di Michele in Scrivi e lascia vivere (Flakowski, 2022), che ha curato assieme ad Andrea Fiacchi e Alice Orrù: “Il linguaggio ci aiuta a descrivere gli oggetti in loro assenza. Si sviluppa all’interno di ciascuna comunità per condividere le esperienze, i pensieri, le idee, le emozioni. Rispecchia il modello mentale di chi lo usa: le abitudini, le convenzioni e le regole sociali”.
Se dunque nella lingua italiana è ancora comune, come racconta Chiara Bisconti, l’uso dentro le aziende di parole come “sottoposto” e “superiore”, c’è da farsi qualche domanda. “Ma chi di noi potrebbe definirsi superiore a un’altra persona, al di fuori di un’organizzazione? Fuori dal contesto lavorativo la parole suona superba, giudicante”, si domanda Bisconti. Per non parlare poi del gergo militare, altrettanto imperante nel mondo del business, ricorda Bisconti: “Le “strategie di attacco” della concorrenza, la “sconfitta” dei competitors, la voglia di “vincere la battaglia” sul mercato”.
Parole di uso quotidiano, che diamo per scontate, che usiamo senza pensarci su. Mail mondo, le società, stanno cambiando. La sensibilità verso le parole sta aumentando. In un mondo e in una società in cambiamento, che hanno voglia di evolversi e spezzare alcune abitudini, come le gerarchie, che hanno sete di uguaglianza, equità, giustizia, le parole che scegliamo di usare fanno la differenza.
COME SCEGLIERE LE PAROLE
Ma allora, se le parole fanno davvero la differenza nei nostri discorsi, come orientare le nostre scelte linguistiche? Soprattutto se di lavoro scriviamo contenuti digitali che saranno letti da un pubblico altro, variegato, che potrebbero avere un qualche effetto “sgradito” su questo pubblico. Nella sua prefazione al volume Scrivi e lascia vivere citato sopra, la giornalista Veronica Fernandes dà una possibile risposta: farsi le domande giuste. Ecco tre domande che propone:
- Quali sono i miei privilegi e come li gestisco?;
- Quali sono i miei privilegi, soprattutto quelli così radicati da sembrarmi invisibili?;
- Chi ferisco quando li metto in pratica e traduco in parole?
In breve: serve una dose di riflessione e di consapevolezza, nel momento in cui scelgo di usare una certa parola. Se la scelgo, e so che potrò ferire una determinata persona o categoria (sì, le categorie esistono, anche se non ci piacciono e non le vorremmo), me ne assumo la responsabilità. Posso scegliere di usare un’altra espressione al posto della parola “incriminata”. Per esempio, invece di “dipendente di quell’azienda” posso sciogliere il sostantivo in una costruzione come “chi lavora in quell’azienda”. Avrò un’espressione più lunga di una singola parola (e si sa quanto la lingua vada alla ricerca del risparmio!), ma almeno non avrò offeso nessuno.
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Verusca Costenaro
Ci sei tu indipendente da me, ci sono io indipendente da te. Dove esistono un io e un tu indipendenti, ci saranno separazione e differenza, che diventano il fondamento della relazione.
Gregory Kramer, esperto e insegnante di meditazione, autore di libri.