Includere, è un gesto che si fa con le persone. Ti includo nel mio spazio vitale, oppure no. Da qualche tempo, però, è diventata una questione che riguarda anche il linguaggio, la lingua che parliamo tutti i giorni. Parole che includono o meno.
INCLUDERE A PAROLE
Nella mia carriera di formatrice e docente di lingue, mi sono sempre posta la questione di far sentire inclusa ogni persona che avevo di fronte nelle mie lezioni, nei miei incontri. Trovare i modi per includere, nei fatti, per me equivale a rispettare. Da qualche tempo, si parla non solo di includere nei gesti, nelle azioni, ma anche nelle parole. Usare le parole adatte per far sentire inclusa nei nostri discorsi – orali o scritti – ogni persona con le sue diverse caratteristiche, legate alla provenienza geografica, linguistica, socio-economica e culturale, alla religione, al sesso, e ogni altro aspetto della vita considerato significativo per l’identità.
La domanda che si stanno ponendo al momento linguisti e studiosi del linguaggio e di questa lingua che è in continua evoluzione e muta, così come muta la società in cui viviamo, è: come si fa, a includere lingusiticamente ogni persona con i suoi tratti, quando si scrive o si parla?
Ma soprattutto, si fa davvero? Davvero è possibile, con le parole, coinvolgere ogni tipologia di essere umano, in modo che ogni persona si senta rappresentata, grammaticalmente e lessicalmente, dalle parole che scegliamo?
INCLUDERE NELLA COSCIENZA
Prima ancora di porci la domanda su quale parola usare per includere ogni persona con i suoi tratti particolari, nella nostra comunicazione, c’è un’altra domanda interessante da porci. Ossia: come mai, di questi ultimi tempi, ogni tipologia di essere umano scalpita per sentirsi rappresentata, nel linguaggio che usiamo? Questo, dovremmo chiederci, ancora prima di trovare strategie linguistiche, lessicali, morfosintattiche, per riuscire a includere ogni tipologia di essere umano quando parliamo o scriviamo. Arrivare a sviluppare una sorta di “coscienza inclusiva”, prima che linguistica, come quella suggerita da Sadhguru, ossia Jaggi Vasudev, mistico e yogi indiano. Una mente aperta, accogliente, non giudicante, innanzitutto
A volte mi viene da pensare che stia tutto “prima”, di quel testo digitale che scriverò, come copy e content writer, e che potrebbe offendere chi non si sente rappresentato. Per esempio, perché uso solo il genere maschile o femminile? E se chi mi legge non si riconoscesse in nessuno dei due, come si sente? L’inclusione sta in primis nella società, fuori dal testo, nel con-testo in cui viviamo ogni giorno. Nelle caratteristiche, di ogni società. Ci sono quelle più inclusive, e quelle meno. Forse, in quelle meno la gente scalpita di più per sentirsi riconosciuta. Perché, credo, se una persona si sente riconosciuta in pieno, nella sua essenza, nel suo modo di essere e fare, si sente apprezzata valorizzata, sostenuta, nella società in cui cresce e vive, allora, forse non sarà così essenziale lavorare un testo a lungo e “per forza”, per farla sentire accolta anche a parole.
INCLUSIONE LINGUISTICA IN PROGRESS
Quella dell’inclusione linguistica, grammaticale, lessicale, morfosintattica, stilistica, quando parliamo o scriviamo, è una questione “in progress”. Ancora troppo presto, a mio avviso, per avere una risposta chiara, definitiva, condivisa. Ancora troppo presto perché alcune proposte – l’asterisco finale, lo schwa, la vocale “u” al posto dell’accordo femminile o maschile, per citarne alcune – vengano standardizzate e rese pratiche comuni e quotidiane. La stessa linguista Vera Gheno, in una intervista osserva che “Lo schwa è un esperimento. E sperimentare con la lingua non è vietato”. In un incontro dal vivo sui social, poi, confermava di sentirsi dentro un processo linguistico in divenire, con proposte che sono dei tentativi di risposta a una questione sociale più ampia, che hanno bisogno di tempo per essere testate, e che probabilmente troveranno una forma riconosciuta e codificata solo più avanti negli anni.
Un giornalista fiorentino, Antonio Montanaro, condivideva il suo pensiero in un post su FB “Sullo schwa in questi giorni ho letto di tutto…. Eppure ancora non riesco a capire come un segno grafico dal suono indefinito e dalla resa complicatissima nel testo scritto possa essere simbolo di inclusione. L’inclusione si sostanzia nella chiarezza di rapporto, altrimenti è confusione. Che può pure andare bene, ma non quando devi esprimere un pensiero e renderlo comprensibile se non a tutti, a quasi tutti”.
Le opinioni sono variegate e aperte, sulla questione.
STARE NEL PROCESSO DELLA LINGUA CHE CAMBIA
Ci stiamo nel bel mezzo, in questo percorso verso soluzioni che vadano bene alla gran parte di noi. Talvolta penso che invece di aggiungere – uno schwa, una “u”, un’altra lettera qualsiasi – mi piacerebbe “togliere”: Buongiorno a tutt! , sarebbe il mio saluto. Una consonante lasciata così lì per aria, tutta sola: fa brutto? A me ricorda tanto il friulano, lo trovo un suono simpatico. Mi mette allegria. Però poi ci penso, e la gente che non si sente inclusa, quando parliamo o scriviamo, potrebbe anche offendersi: vuole essere riconosciuta, e non è togliendo, giustamente, che riconosciamo qualcuno. Non ho soluzioni da offrire (per ora), nessuna mi soddisfa davvero. Non ho proposte da accogliere, dato che non ce n’è una condivisa, canonizzata, ancora. Allora, personalmente, proseguirò sulla strada di sempre, senza schwa, senza asterischi, senza vocali insolite finali. Una strada riconosciuta, ma in divenire. Scelgo di non scegliere, per il momento. Ma quel che è certo, è che scelgo di stare dentro il processo di cambiamento della lingua che usiamo per entrare in relazione con gli altri esseri viventi ogni giorno. Scelgo di rimanere attenta, ricettiva, aperta. Scelgo la definizione che dà, in ambito didattico-educativo, alla parola “inclusione”, Michele Daloiso, Professore di Didattica delle Lingue Moderne ed esperto di disturbi specifici dell’apprendimento, “L’inclusione è un processo. È una ricerca continua e ininterrotta, necessaria per trovare le migliori risposte alla diversità”.
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Verusca Costenaro
L’uomo vuole una ricetta per parlare il linguaggio inclusivo, ma questa ricetta non esiste. Il linguaggio inclusivo è una ricerca. Se si pensa che si devono usare determinati termini perché in caso contrario non va bene, questa non è inclusione, questa è un’imposizione. Le parole vanno utilizzate se hanno una loro utilità, se hanno la funzione di far comunicare meglio le persone, di essere più accoglienti e di rispettare.
Beatrice Cristalli, consulente in editoria scolastica, formatrice e linguista.